La maschera antigas degli anni ’60

Il soggiorno sull’isola accade frequentemente, ma dura solo qualche giorno.
 Nei momenti in cui uno scorcio di primavera pare affacciarsi, l’isola è un rifugio rassicurante.
 I profumi sono la prima cosa a cui penso.
 La luce la seconda.
 La spiaggia deserta la terza.
Le persone si incontrano di rado e tutto sembra rarefatto: la luce, i gesti, gli incontri.
L’isola è lunga cinque chilometri e larga uno e mezzo.
E’ inquetante quanto sia piccola.
L’inquetudine sale piano piano, a mano a mano che i soggiorni cominciano ad essere più frequenti.
Il caldo è un’altra accezione che non le dona.
 Molta gente e molto caldo rendono la permanenza poco sostenibile.
 Cerco di non pensare di essere in uno spazio ristretto, circoscritto.
Esco a correre, è sera e l’aria è umida, tanto la lasciare le braccia bagnate.
 Sudo troppo e lo sforzo diventa difficile da sostenere.
Anche se il buio aiuta a non vedere quanto si è limitati e imprigionati l’aria stessa ti fa capire dove sei.
 Quell’aria pesante, che ti soffoca.
Come se stessi indossando una maschera antigas.

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